VIAGGI La figura della viaggiatrice nel tempo

WEEKEND - All'inizio del secolo scorso "viaggiare era smentire il pregiudizio sociale che voleva la donna mansueta, curiosa ma solo di frivolezze, e soprattutto sedentaria. Una forma di emancipazione riservata esclusivamente a donne di classe sociale elevata". E tuttavia ... “che femmina è mai quella che sceglie di vivere sparpagliandosi in giro per il mondo?” Ogni tanto Il web restituisce il bello che trattiene in memoria. Riaffiorano casualmente, da questo contenitore, parole di  bellezza, pensieri che è un piacere ritrovare. Quello che segue è un articolo di Lisa Ginzburg sulle viaggiatrici, sul “viaggio” al femminile. Un articolo che ospitiamo nel nostro spazio per un momento di buona lettura da condividere.

Giro del mondo al femminile

 

di Lisa Ginzburg (10 Marzo 2007)

Come si è evoluto nel tempo il ruolo e l'immagine delle donne viaggiatrici? Una volta si dovevano travestire da uomini per conoscere il mondo. Oggi sono scienziate, giornaliste, antropologhe, geografe o semplici turiste. Curiose di conoscere paesi lontani, a volte anche pericolosi. Alla National Portrait Gallery di Londra nel 2004 è stata allestita una mostra sulle donne viaggiatrici. Esposizione documentata di biografie: di ecclesiastiche impegnate in solitari pellegrinaggi sino alle più moderne aviatrici/avventuriere dei cieli, passando per agiate signore con la insopprimibile passione per il viaggio, espressa sotto forma di vocazione alla ricerca antropologica, alla diplomazia internazionale, all'avventura tout court.

Come si è evoluta nel tempo la figura della viaggiatrice? "La notte scorsa eravamo sporche, isolate dal resto del mondo e libere, stanotte siamo pulite, di nuovo nel mondo civile e prigioniere". Scriveva così al suo ritorno a casa Louisa Jebb, un'aristocratica londinese che all'inizio del Novecento insieme ad un'amica aveva attraversato la Turchia a cavallo. Viaggiare era smentire il pregiudizio sociale che voleva la donna mansueta, curiosa ma solo di frivolezze, e soprattutto sedentaria. Una forma di emancipazione riservata esclusivamente a donne di classe sociale elevata (bene lo racconta una graziosa antologia edita da Archinto, Le vere signore non viaggiano). Diversamente, la sola strada data a una donna per girare il mondo era fingersi uomo. Isabelle Eberhardt, svizzera di origine russa innamorata della cultura berbera e orientale, alla fine dell'Ottocento conobbe il Maghreb e lo descrisse dopo averlo osservato dietro il suo travestimento di beduino. Morì giovanissima nel deserto. Ma era riuscita a non farsi scoprire, e a scrivere.

Oggi le viaggiatrici sono migliaia. Possiamo curiosare tra siti internet a loro dedicati, o leggere nelle guide turistiche appendici consacrate alla categoria "donne", dove con delusione trovare indicati solo locali notturni dove assistere a spogliarelli maschili, hammam, sofisticate boutiques. Alle "turiste per caso" che si suppone si spostino per leggerezza, per innato desiderio di ribellione quando non per fame di sesso, va aggiunta la categoria delle viaggiatrici per professione. Scienziate, giornaliste inviate, antropologhe. Donne che di continuo vanno e vengono da paesi lontani, il più delle volte pericolosi. Con coraggio cercando di inserirsi in realtà piagate da un maschilismo protervo. Attraversando i deserti e sfidando le intemperie. Sole, audaci, incrollabili. Che viaggiano e quando tornano a casa raccontano e scrivono, forti tra le altre cose della potenza mediatica del loro essere, oltre che temerarie nomadi, donne.

Evoluzioni apparenti, dietro cui si nascondono concezioni immutate. A legger tra le righe del pensiero comune si può scoprire quanto l'immagine che una donna nomade proietta di sé continui ad essere quella di una figura inquieta, errabonda e quindi disequilibrata, non del tutto adulta e responsabile, insomma un tipo strano e in termini "femminili" non proprio raccomandabile. Che femmina è mai quella che sceglie di vivere sparpagliandosi in giro per il mondo? Una che per temperamento o per reazione a chissà quale destino avverso ha scartato l'ipotesi di costruirsi un nido, un focolare del quale essere il quieto angelo.

La scrittrice Clarice Lispector, nata in Ucraina subito poi emigrò in Brasile; di famiglia ebrea, sposò un diplomatico e trascorse molti anni non facendo altro che cambiare paesi e case. Sembrava destinata ad errare. Eppure (traduco in questo periodo il suo epistolario) di se stessa spiegava: "In verità io non so scrivere lettere sui viaggi; in verità non so nemmeno viaggiare. È interessante come stando poco tempo nei posti, io veda poco. Trovo la natura tutta più o meno simile, le cose quasi tutte uguali". Dichiarazioni coraggiose, in contrasto con l'attuale proliferare di cronache di viaggi spesso compiuti in gran fretta, "vai-torna-e-racconta", "ho visto-ho capito-adesso vi spiego". Sembra che tra facoltose viaggiatrici del passato e agguerrite nomadi contemporanee non ci sia molta differenza. Tutte hanno viaggiato per dimostrare qualcosa, a se stesse in prima battuta e subito dopo al mondo. Per trattenere una memoria visiva dei luoghi visitati e attorno ad essa, una volta tornate indietro, tessere l'ordito della trama supplementare del loro racconto. Ma il racconto annulla, verbalizzandoli, i frutti più preziosi del viaggiare: lo spaesamento, la trasformazione interiore, l'insegnamento dell'esperienza. Se riferire presuppone che si sia ritornati, la cronaca di un viaggio, nel suo valore di testimonianza, realistica o di finzione, contiene in sé il rischio di azzerare l'effetto dello spostamento.

Viaggiatrici vanno allora cercate in un altro universo, meno clamoroso, meno documentato e molto meno allegro. Quello delle donne che non si spostano per desiderio, non per "dimostrazione" ma per necessità. Costrette a cercare fortuna altrove, in terre che non sono le loro. Donne vendute, promesse da altri a uomini che non le rispetteranno. Accecate dalla illusione di un benessere che molte volte si rivela essere una situazione di ricatto, condizionamento, prigione psicologica. Donne migranti. Donne che scappano dalla guerra.

Ho intervistato anni fa una iraniana, nel suo buio monolocale sul limitare deserto di una periferia di Roma. In Italia da vent'anni, continuava a parlarne come di un paese straniero: con amore e insieme con sdegno. "Vivo qui come fossi in viaggio" disse per spiegarmi la solitudine, il senso di continua disappartenenza. Da secoli esistono queste viaggiatrici coatte. Bianche, nere, giovanissime o già anziane. Che tirano avanti macerandosi nella nostalgia delle loro terre d'origine - dove però, raffrontando le diverse condizioni di vita, non vorrebbero più ritornare. E poiché non tornano, non raccontano. Vivono in transito. In viaggio. Viaggiano spesso per una vita intera. Quanto potremmo imparare dalle loro storie, su cosa sia l'essere viaggiatrici.

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