Donne in politica: il velinismo non serve

Ma ancor prima che un problema di impoverimento della qualità democratica di un paese, a nostro avviso quello della limitata presenza delle donne nello spazio politico e in particolare nelle posizioni «che contano» costituisce un problema di diritti individuali: se nella popolazione complessiva vi è circa un cinquanta per cento di donne, il fatto che in molti paesi questa percentuale crolli verticalmente se si analizzano le assemblee elettive e gli esecutivi significa inequivocabilmente che esiste una discriminazione, a meno che non si voglia sostenere che esistano una inadeguatezza o un disinteresse «genetici» delle donne rispetto alla politica.

I meccanismi della discriminazione operano in diversi ambiti, dalla cultura del paese alla struttura familiare e sociale e sono tanto più efficaci quanto meno il sistema del welfare va in aiuto alla donna rispetto all’esercizio dei suoi compiti più «tradizionali». Ma accanto a questi meccanismi di discriminazione che condizionano la presenza femminile in ogni ambito pubblico e lavorativo, ve ne sono altri, più prettamente politici, riconducibili alle «resistenze» opposte dagli insider, che in quasi tutti i paesi europei, fatta eccezione per le democrazie scandinave, sono in larga misura maschi. Resistenze che potranno essere più o meno efficaci a seconda dei meccanismi di cooptazione e di scelta dei rappresentanti che operano all’interno del sistema politico; a questo proposito è stato osservato come un sistema elettorale proporzionale sia tendenzialmente più favorevole alle donne rispetto a un sistema maggioritario con collegi uninominali, ma anche come, al tempo stesso, un sistema proporzionale con liste chiuse, ponendo totalmente nelle mani dei vertici dei partiti la scelta dei candidati, possa costituire un efficacissimo strumento di limitazione della rappresentanza femminile.

L’Italia, nel suo comportamento poco virtuoso – anche se dei piccoli passi avanti sono stati fatti – è certamene in buona compagnia. Con la sua bassa percentuale di donne elette alla Camera dei deputati (21,3%) supera la Francia (18,5%), che ha però più senatrici, e il Regno Unito (19,7%), anche se è nettamente distanziata da altri paesi come il Portogallo (28,3%), la Germania (31,6%), l’Austria (32,2 %), il Belgio (34,7%), la Spagna (35,1%), i Paesi Bassi (36,7%) e tutti i paesi scandinavi (dal 36,9% della Danimarca al 47,3% della Svezia). Ma se si guarda alla partecipazione agli esecutivi, l’Italia, insieme a Grecia e Portogallo, fa una ben magra figura anche rispetto a Francia e Regno Unito e soprattutto conferma la tradizione di attribuire alle poche donne ministro ministeri di scarsa rilevanza, solitamente senza portafoglio, oppure ministeri tradizionalmenti "femminili", come l’istruzione. Donne a capo di ministeri come quelli degli interni, dell’economia, del lavoro, della difesa, sono una realtà in paesi geograficamente e culturalmente vicini a noi come la Francia e la Spagna, ma solo un’illusione in Italia, dove naturalmente non è nemmeno pensabile avere una donna a Palazzo Chigi.

In alcuni paesi europei sono state adottate misure di discriminazione positiva per far fronte alla scarsa presenza femminile nelle istituzioni politiche, anche se vi sono esempi, come quello spagnolo, che mostrano che è possibile ottenere risultati soddisfacenti anche senza costrizioni legali: qui è grazie all’autonoma iniziativa dei due maggiori partiti che le donne hanno potuto ottenere spazi e ruoli significativi. La scarsa sensibilità mostrata fino ad oggi dai politici italiani ci fa dubitare che qualcosa di simile a ciò che è accaduto in Spagna si possa verificare anche da noi. Dopo le limitate misure adottate a livello locale e per la Camera dei Deputati nel 1993 e poi bocciate dalla Corte costituzionale due anni dopo e la riforma costituzionale approvata nel 2003 per assicurare la parità di accesso alle cariche elettive, nel 2005, l’allora ministro delle Pari opportunità Stefania Prestigiacomo tentò di introdurre le cosiddette "quote rosa" nella nuova legge elettorale, incontrando la strenua opposizione di molti politici maschi dei due schieramenti, che mostrarono in quell’occasione uno strenuo attaccamento al fortino dei loro privilegi. Da allora la questione è uscita dall’agenda politica. Ci chiediamo se una così palese violazione, certo non operata per vie legali, ma attraverso meccanismi sociali e comportamenti della classe politica, di un diritto politico essenziale possa essere a lungo tollerata. Forse un partito che oggi è al governo e si fa chiamare Popolo della libertà dovrebbe interrogarsi seriamente.

Se il problema della carente presenza femminile nei luoghi della politica tocca molte democrazie, anche se nel caso italiano si presenta in modo particolarmente acuto, vi è una specificità tutta nostrana che aggrava ancor di più la situazione. Ci riferiamo alla pratica di cooptazione di giovani, talvolta giovanissime, signore di indubbia avvenenza ma con un background che difficilmente può giustificare la loro presenza in un’assemblea elettiva come la Camera dei deputati o anche in ruoli di maggiore responsabilità. Che nella politica italiana vi sia la necessità di dare spazio a una nuova generazione non vi è dubbio, ma è questo, ci chiediamo, il modo?

Come ha scritto Ritanna Armeni sul Riformista, siamo di fronte ad un modo di fare politica «con il corpo delle donne». Che l’immagine nella politica contemporanea sia divenuta un elemento cruciale è ormai un dato acquisito e questo vale sia per gli uomini, sia per le donne. Ma qui siamo di fronte ad un altro fenomeno. Qui non siamo di fronte all’utilizzo da parte del singolo politico che mira ad attrarre consenso, dell’immagine intesa in senso ampio, comprendente quindi la capacità di trasmettere fiducia, senso di sicurezza, tratti del carattere come l’onestà o la fermezza, o un più generale fascino. Qui assistiamo ad una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto a che fare, allo scopo di proiettare una (falsa) immagine di freschezza e rinnovamento. Questo uso strumentale del corpo femminile, al quale naturalmente le protagoniste si prestano con estrema disinvoltura, denota uno scarso rispetto da un lato per quanti, uomini e donne, hanno conquistato uno spazio con le proprie capacità e il proprio lavoro, dall’altro per le istituzioni e per la sovranità popolare che le legittima.

Al tempo stesso, esso rischia di far fare un pericoloso passo indietro alla cultura politica del nostro paese. Secondo l’Eurobarometro 2008, l’Italia, insieme all’Austria e al Portogallo, è il paese europeo nel quale i cittadini si sentirebbero meno «a proprio agio» con una donna posta a ricoprire la più alta carica del paese. Il fenomeno del "velinismo" in politica, ancorché circoscritto, non aiuta certo a modernizzare una cultura ancora in parte diffidente verso il ruolo delle donne in politica e a promuovere la pari dignità dei sessi in ogni ambito della vita pubblica, piuttosto rilancia uno stereotipo femminile mortificante, accuratamente coltivato dalla nostra televisione (che è, a questo proposito, un unicum nel contesto europeo-occidentale) e drammaticamente diseducativo per le nuove generazioni.

Le donne non sono gingilli da utilizzare come specchietti per le allodole, non sono nemmeno fragili esserini bisognosi di protezione e promozione da parte di generosi e paterni signori maschi, le donne sono, banalmente, persone. Vorremmo che chi ha importanti responsabilità politiche qualche volta lo ricordasse.

27 aprile 2009

 

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