Se mancano norme chiare

La sentenza della Corte di Cassazione, che dichiara applicabili allo stupro di gruppo (art.609 octies c.p.) le misure alternative alla detenzione, si innesta nelle indicazioni contenute nella sentenza n.265 del 2010 della Corte Costituzionale , la quale ha dichiarato la illegittimità della norma contenuta nella legge sullo stalking (art. 275 del D.L. n.11 del 2009), che prevedeva la detenzione obbligatoria per i delitti di violenza sessuale ( singola o di gruppo)

I giudici costituzionali hanno infatti affermato che l’allarme sociale determinato da tali ormai diffusissimi reati non sarebbe paragonabile  a quello proveniente dai reati di mafia (per cui è appunto prevista la detenzione obbligatoria) perché riguarderebbe episodi singoli, spesso commessi da individui diversamente motivati, o anche psichicamente alterati.
Non corrisponderebbe quindi al principio di “ragionevolezza della pena” – secondo il Relatore di quella sentenza, un avvocato penalista -escludere le misure alternative per tali reati.
Premesso che la Corte Costituzionale non si è occupata della violenza di gruppo, che non può essere certamente ricondotta ad eventuali alterazioni psichiche di ciascun membro del “branco”,  il quale ritrae la propria forza e determinazione  proprio dalla comune volontà criminosa e perversa dei suoi componenti (necessariamente tutti presenti, perche sia configurabile il “gruppo” criminale, sul luogo del delitto:Cass.23988/2011) va innanzi tutto considerato, proprio sul piano della “ragionevolezza”, che le norme penali, e coercitive in genere, nascono -in una società democratica- proprio dall’allarme sociale e dalla conseguente necessità di reprimere in modo più o meno severo certe condotte contrarie alla sicurezza della convivenza civile.
Da un punto di vista tecnico deve invece rilevarsi che    in sede di conversione del D.L. n.11 del 2009  è stato comunque previsto (art.3 legge n.38 del 2009, di conversione del citato D.L.) che le misure alternative alla detenzione possono essere applicate, oltre che ai mafiosi pentiti o collaborativi, anche ai colpevoli del reato di violenza di gruppo, ma, per questi ultimi “ solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno anche con la partecipazione di esperti…” sempre che non siano state concesse circostanze attenuanti (che non si negano a nessuno, salvo che ai recidivi).
Tale norma va comunque collegata con l’art.1 comma 3 lett.) della  successiva legge n.199 del 2010   circa l’esecuzione delle pene agli arresti domiciliari, secondo cui sono esclusi da tale beneficio i soggetti indicati nell’art.4 bis della legge n.354 del 1975( cui fa riferimento appunto la legge sullo stalking), e quindi anche i colpevoli di violenza sessuale singola o di gruppo.
Si dovrebbe allora ritenere che non potendo essere  applicati agli stupratori  gli arresti domiciliari, si debbano prendere in considerazione, in osservanza delle ricordate sentenze, altre misure alternative, quali l’assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio, ecc. , misure  tutte atte  ad esporre la persona offesa a grave pericolo di ritorsione( come si è visto in molteplici casi di stalking, dove dalle reiterate minacce, non debitamente perseguite o punite, si è passati all’omicidio).
Dunque, di fronte all’indirizzo “ permissivo” della Corte Costituzionale, cui la Cassazione si è uniformata,  e considerato che l’allarme sociale  per gli episodi di violenza sessuale non solo persiste, ma aumenta, deve intervenire il legislatore con una disposizione che coniughi la “ragionevolezza” pretesa dalla Corte Costituzionale con l’allarme per la mancanza di protezione adeguata in tale campo, che altrettanto “ragionevolmente,la società richiede.

L’intervento potrebbe  consistere in una   norma che determini in senso restrittivo (es. lavoro in una comunità di recupero) la possibile misura alternativa per tale genere di reati, e ciò in attesa di una seria riforma delle misure alternative, preannunciata dalle legge n.199 del 2010, nonché di un rèvirement della giurisprudenza, la quale dovrebbe dimostrare per un reato grave  come la violenza di gruppo, giustamente punito con una pena di per sé indicatrice della pericolosità della condotta sanzionata ( da sei a dodici anni di reclusione), una maggiore sensibilità e   considerazione.

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