Schiave della frutta in Italia

DIRITTI - In questi giorni l’Espresso.it pubblica un reportage (a firma delle giornaliste Raffaella Cosentino e Valeria Teodonio) sulle “schiave dei campi”. Raccolgono frutta in Puglia, Sicilia, Campania. Sono prevalentemente donne. Prevalentemente italiane. Più controllabili, ricattabili, assoggettabili, e con mani più delicate, rispetto agli uomini. A pochi giorni dall’apertura di EXPO, viene davvero voglia di smettere di mangiare la frutta immediatamente quando si leggono queste storie, e le cifre di quello che sembra un giro d’affari tollerato e, per certi utili aspetti, anche legalizzato.

Il caporalato che fornisce alle aziende agricole la necessaria manodopera stagionale ha trovato plausibili escamotages per non sembrare tale. Così la macchina azionata dal lavoro delle “nuove schiave dei campi”, tranne che per le operatrici agricole, funziona piuttosto bene. Vengono trasportate in pullman le nuove schiave che arrivano in Italia dall’Est. Potremmo sequestrare ed eliminare anche questi mezzi, così come ci si propone di fare con le ‘carrette’ del mare che giungono sulle coste cariche di altri migranti? Sembra però più facile cavalcare l’onda contro lo sfruttatore ed il mariuolo straniero piuttosto che pizzicare quello nostrano. Nonostante i numeri.

«Le straniere schiavizzate in agricoltura sono 15mila (contro i 5mila uomini). Sono quasi sempre giovani mamme, ricattabili proprio perché hanno figli piccoli da mantenere. Un dato impressionante, che si somma ad un altro elemento preoccupante: il numero sempre crescente delle lavoratrici italiane, che, se non schiavizzate, sono comunque gravemente sfruttate: sempre secondo le stime del sindacato, in Campania, Puglia e Sicilia, le tre regioni a maggiore vocazione agricola, sono almeno 60mila, in proporzione crescente rispetto alle straniere. Vengono pagate 3-4 euro l'ora, ma anche meno in alcuni territori, e costrette a turni massacranti.» scrive Valeria Teodonio.

E’ storia antica, ma l’emergenza occupazione che affligge il nostro paese, aggravata dalla crisi, sta aprendo -e mantenendo- ghiotte opportunità di sviluppo per gli impuniti capaci di coniugare business e malaffare. Intollerabile! Ma «qui non si tratta di caporali e basta, si tratta di organizzazioni criminali. Malavita. Il caporale è solo un anello della catena.» Le aziende agricole italiane –viene allora lecito domandarsi- sono davvero all’oscuro di tutto e “senza peccato”? Se anche così fosse stato, da oggi non sarà più possibile sostenere di non sapere. «Gli addetti all'agricoltura in Italia sono un milione e 200 mila. Nel 43 per cento dei casi -è il dato dell'Istat- si tratta di lavoro sommerso. E il giro d'affari legato al business delle agromafie, secondo le stime della Direzione nazionale antimafia, è di 12,5 miliardi di euro all'anno

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